Voglio divertirmi a correre, spaziare nei prati liberi, volare: l’amplificazione delle capacità creative e comunicative in Marco Cavallo di Giuliano Scabia
di Marco
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Questo laboratorio P è aperto a tutti.
È un luogo dove tutti cerchiamo di esprimerci
e di dire qualcosa agli altri
disegnando, cantando, recitando,
suonando, ballando, parlando, guardando,
facendo burattini,
costruendo il cavallo gigante e i pupazzi giganti,
inventando continuamente.
Cartello pendente sulla porta del laboratorio
È difficile rinunciare a tutta una struttura mentale, smettere di fare quello che la tradizione e la propria cultura ci hanno insegnato a fare; è difficile stare insieme, ancora più se gli altri sono matti. Mettere in movimento una collettività di ammalati, dottori, infermieri, pittori, scrittori, scultori, ecc., per cambiare la quotidianità di un manicomio attraverso la creazione è un modo di affrontare tutte queste difficoltà. Marco Cavallo è un progetto che mi sembra interessante per tutti i fattori che si incrociano in esso: i partecipanti, il modo di creazione collettivo, le strutture mentali diverse e la necessità di dare ascolto, movimento e libertà a sé stesso e all’altro; cerca di modificare la realtà propria e dei malati, cerca un nuovo modo di stare insieme e che ogni individuo possa riaffermare la propria capacità di esprimersi. Per questo, lo scopo del saggio sarà trovare come si sviluppano i concetti di amplificazione e dilatazione nel progetto di Giuliano Scabia che vuole, attraverso la creatività sia dei professionali sia del confronto con la realtà quotidiana, amplificare la capacità dei partecipanti di risolvere problemi, amplificare la loro voce e i loro mezzi espressivi.
Qualche anno fa avevo lezioni di canto corale con la professoressa Perla. Ogni lunedì eravamo alla sua lezione in tre o quattro, al massimo cinque, ma lei ci diceva che alla fine del corso avremmo cantato con tutti gli altri allievi. Io ero molto stonato come Scabia, ma pian piano la mia intonazione diventava meno terribile: alla fine sono riuscito a cantare decentemente. La professoressa ci diceva che il coro sarebbe stato molto grande, però non ho immaginato quanto: il giorno del concerto eravamo in cento, forse in più. Di cantare con quattro ero passato a cantare con cento persone, subito ho sentito un’energia molto più potente, una voce assai grande. Era un concerto di natale e cantavamo ¡Oh! noche santa, e dopo le tre o quattro strofe cantate dai solisti, il coro ha cominciato a cantare in un pianissimo quasi impercettibile, è andato in crescendo fino arrivare al climax di tutto il concerto: si cantava, si ascoltava un fortissimo Dadle loor, oíd celestes voces, oh noche divina en que nació Jesús, in quel momento sentivo che la mia voce aveva il potere di cento voci, ma non la sentivo, soltanto ascoltavo una voce collettiva della cui era parte la mia, si era così amplificata che sembrava la voce di un gigante cantore, mi sentivo un gigante e allo stesso tempo una piccola voce dentro quella massa acustica. È stata una esperienza unica di comunione e comunicazione. Ho scoperto che stare insieme e cantare insieme è una forma di amplificare la propria voce e qualsiasi altra cosa. Marco Cavallo mi riporta a quel momento di collettività piena di emozioni che non ho vissuto più, almeno con quella stessa intensità.
La creazione collettiva aiuta a misurarsi sé stesso de una forma differente. L’idea de Giuliano Scabia, Vittorio e Vittoria Basaglia, Ortensia Mele, Federico Velludo e Stefano Stradiotto non è stata curare i malati, anzi, cercare un nuovo modo di stare insieme, volevano aiutare a modificare una realtà umana piena di timore, paura, e isolamento; piena di repressione fisica e mentale. Per ciò il progetto di Scabia e compagnia voleva aprire una finestra che permettesse entrare “il fuori” da cui sono separati, voleva che il mondo esterno arrivassi a quel posto di punizione e controllo totale. In realtà, quello che cercavano di curare era “la miseria della non espressione a cui sono condannati” i matti. Per raggiungere il loro scopo si sono assumiti come artisti che volevano fare cose gigantesche che avessero la forza sufficiente per vincere la paura della non comunicazione.
Cosa diventa il mondo per uno che resta internato venti o trenta anni? Questa domanda si fa Scabia quando esce dal manicomio dopo aver passato una settimana dentro, la quale è bastata per modificare la sua percezione del mondo esterno, perché il manicomio è una istituzione di quelle totalizzanti che trasformano la personalità e la realtà di chi è all’interno: medici, infermieri e, principalmente, malati. L’arte è bella dice Lorenzo (un malato), e proprio essa ha il potere di trasformare lo spazio, la quotidianità, la convivenza, la concezione degli altri e di sé stesso; insomma, la creazione individuale e collettiva ha la capacità di modificare la percezione della realtà: dilata l’immaginazione e le capacità comunicative: un luogo paranoide lo rende un posto divertente di canti e poesia.
L’istituzione non promuoveva la convivenza tra gli interni, inoltre molti di loro non erano capaci di parlare sia per incapacità fisica che mentale, dunque, la sfida principale era sviluppare delle forme espressive. Molti malati avevano paura di non sapere fare, e lo sguardo era l’unica forma di avvicinarsi: osservare quello che gli altri facevano, ma lo sguardo, secondo Scabia, poteva anche diventare uno strumento di morte e lontananza. Per questo, la pittura, i ritratti, il giornale murale, le storie disegnante, cantate e con i burattini, il cavallo e la casa, sono diventati i loro mezzi di comunicazione. Tutto il repertorio artistico permetteva ai matti, medici, infermieri e artisti collegarsi tra loro e con il mondo di fuori, spaziare per i campi dove avevano passato la loro infanzia, ricordare antiche imprese, rivivere vecchi avvenimenti. Non solo amplificavano la loro capacità di comunicarsi con gli altri, ma anche il loro spazio si espandeva al di là dei muri dell’ospedale, l’immaginazione e la creazione li hanno portati mentalmente e fisicamente fuori, ai posti vietati alle persone come loro.
Torno velocemente alla mia esperienza. Normalmente nelle scuole di musica ci sono molte Rosine (paziente dell’ospedale psichiatrico molto esigente con l’armonia corale) che monopolizzano il canto e si arrabbiano molto se ascoltano qualche stonato. A loro non importano molto la collettività, ma che la sua voce si ascolti forte e chiara sopra le altre. Per questa ragione, a volte, cantare diventa un vero martirio. C’è una tendenza a escludere la gente che non è buona a cantare, dipingere, ballare, attuare, suonare, disegnare, ecc., normalmente l’accademia artistica è molto selettiva. È vero che Scabia sviluppa il suo progetto in un posto molto particolare, ma sarebbe bello che tutti, malati e sani; bambini e adulti possano godere di una forma comunicativa così ampia, insieme, senza paura di essere giudicati; che possano amplificare i loro repertori espressivi cantando disegni, facendo storie, dipingendo retratti. Non soltanto è necessaria un’educazione logica-matematica, ma anche un’educazione artistica-sentimentale-emozionale che permetta lo sviluppo della creatività e l’immaginazione.
Il gigante blu, Marco Cavallo ha la sua storia, la sua amica e la sua canzone. Il gigante vuol essere libero e correre per i campi, avere amici e avere cose nella pancia. Marco Cavallo è la materializzazione della amplificazione e la libertà. Scabia dice che “il gigante è uno scatenatore di miti, di ricordi, di fantasie collettive, di immagini di feste arcaiche. Non è una maschera, ma un personaggio, con una sua vita, sue canzoni […] È un’immagine unificante in cui si identifica l’inconscio collettivo”.[1]
Tra tutti i modi di comunicare del progetto di Scabia, la musica libera e il canto sono quelli che mi interessano di più. I malati avevano il bisogno individuale di essere ascoltati e applauditi, ma la scoperta più importante è stata la possibilità del dialogo musicale: ascoltare gli altri e contribuire con la propria voce per fare un canto più forte e grande, per renderlo un gigante. Un coro dove tutti trovino spazio, tonati e stonati è quello che voleva Scabia, malgrado Rosina si arrabbiassi.
“L’atmosfera sonora che si crea con l’armonizzazione collettiva è qualcosa che avvicina e unisce (un vibrare insieme)”.[2] Sono le parole giuste che volevo trovare per raccontare la mia esperienza nel coro dopo il concerto di natale, ma non li ho trovati. Ma adesso immagino chiaramente i canti in quell’ospedale italiano nel 1973. La musica fa cantare i muti, i timidi; quelli che non parlavano e non avevano rapporti umani cominciano a sbloccarsi. Fare parte del gigante è una esperienza molto attraente alla quale quasi nessuno si può negare. Lingue, dialetti, ricordi, esperienze e canzoni popolari si mescolano in una vibrazione amplificata.
Questa atmosfera sonora è composta di gesti, suoni, fonemi, parole, costumi, burattini, canti, disegni, libri parlati, ecc. È una dilatazione delle proprie capacità corporali, mentali e sociali; è una scoperta della voce e il corpo proprio e altrui. Per questo motivo Marco Cavallo, il gigante azzurro è un coro di storie e vibrazioni che dimostra la possibilità di vivere e trattare le malattie mentali di una forma diversa, dimostra che si può stare e creare insieme agli altri, e deve essere un esempio a ricreare in diverse atmosfere dove l’immaginazione e l’espressione stiano bloccate e soffocate, dove l’individualità e la voce di una sola persona non permette l’amplificazione delle altre voci.
[1] Giuliano Scabia, Marco Cavallo. Da un ospedale psichiatrico la vera storia che ha cambiato il modo di essere del teatro e della cura, p. 202.
[2] Idem, p. 211.
Referencias
Scabia, Giuliano. Marco Cavallo. Da un ospedale psichiatrico la vera storia che ha cambiato il modo di essere del teatro e della cura. Merano: alpha beta Verlag, 2011.
Scabia, Giuliano (curatore). La luce di dentro. Viva Franco Basaglia. Da Marco Cavallo all’Accademia della follia. Pisa: Titiillus, 2010.
Il gorilla quadrumàno: Il gorilla quadrumàno. 1974 – Nuovo teatro made in Italy dal 1963 (sciami.com)